Sul tavolo rotondo ci sta l’inceratino giallo a preservarne nei secoli l’integrità ed è stato così, scommetto, sin dal primo secondo della sua entrata in casa. Azzarderei anche che l’impiallacciatura di ciliegio laccato non abbia mai visto la luce, mai, se non per essere ancora una volta inutilmente lucidata.
Sopra alla plastica viene stesa all’ora dei pasti la tovaglia bella, quella da Mulino Bianco, talvolta proprio quella DEL Mulino Bianco, presa con la raccolta punti, per dire. Fiandra bianca, oppure scacchi bianchi e rossi, a seconda.
Tra un pasto e l’altro la tovaglia viene ritirata, sgrullata dalla finestra e messa a lavare. Al suo posto ecco comparire un tovaglione di tessuto pesante, un copritavolo, a fiori. L’orlo cigliato di frangia fitta.
E ogni volta che veniva messa mio nonno rimaneva per un momento a fissare il motivo decorativo a mazzi di rose.
“Elsa! Lo vedi il canino?”
Un canino tale e quale a Susy, il mezzo pechinese che aveva in casa da piccolo a Forte dei Marmi, tutto nero.
“Eh?”
“Ma sì! Non vedi? Qui ci sono gli occhietti, questo è il musino, lo vedi il naso?”
“Io non vedo niente”
E così per sessant’anni. È chiaro che la cosa non poteva certo finire lì e per non sentirsi come l’unico pazzo che vede animali domestici negli arredi, la domenica nonno ci interpellava tutti:
“Ma tu lo vedi il canino?”
“Ma sì, certo, quelli sono gli occhi”
“E quello il naso”
“Sembra che tenga un fiore in bocca”
Tutti in piedi intorno al tavolo in concitato capannello, tutti a guardare il motivo ripetuto di decine di musi canini.
“Ma sì mamma, lo vedi? Ti devi mettere qua, osservalo da questa angolazione, lo vedi?”
“Eh, nonna, vedi? Qui ci sono gli occhi…”
“Io non vedo niente”.